Francesco ciusa e il gipeto

Monte Ortobene – Pensieri e Racconti

Il Gipeto sull'Ortobene

All’interno del monte Ortobene è presente una ricca fauna selvatica che ad oggi comprende:

Tanti altri sono invece gli animali oramai del tutto estinti. A ricordarli sono i toponimi rimasti (Corra Chervina, Badde Mugrones, Sinzale ‘e Chervos, Punta Gurturjos ecc.) e i vecchi racconti degli anziani.

Tra gli animali estinti, ma che da sempre hanno fatto parte della fauna dell’Ortobene, troviamo:

Il cervo sardo, i daini, il muflone, gli avvoltoi tra i quali non mancava il grifone e… il gipeto.

Un suggestivo racconto narrato dallo scultore Francesco Ciusa in “Pagine per una autobiografia” ci racconta di una particolare vicenda avvenuta nei pressi di Monte Pala ‘e Casteddu, sull’Ortobene, dove alcuni giovani ragazzi nuoresi andarono alla ricerca del nido del particolare avvoltoio barbuto.

Il nido di Monte Palas de Casteddu

Nella gradinata passò la voce: “Nel Monte Palas de Casteddu vi è un nido di avvoltoi”. La voce si consolida, i fanciulli confabulano, la spedizione è stabilita. Si parte.

Oh! andare, andare per pianura e soleggiate, quando dagli alti colli il nibbio squittisce in un grido prolungato d’allarme, che pare avverta la presenza dei cercatori di nidi. Arrivati sul Monte, per quanto fatta un’accurata ispezione, non trovarono alcun segno di nido; ma quando il gruppo della gradinata stava per rinunciare all’impresa e si preparava ad andar via, al fanciullo non sfuggirono delle macchie bianche di sotto ad una larga incavatura, in alto, sulla parete a picco del Monte. Non rimaneva che mettersi in agguato.

Passati pochi secondi, ecco apparire nel cielo l’avvoltoio con qualcosa di bianco fra le grinfie. Roteando, a destra del Monte, si abbassa ad una certa altezza e lascia cadere quanto di bianco tiene fra gli artigli; poi, ad ali chiuse, scende a picco, come un bolide, sopra la preda.

Questa, cadendo, andò in frantumi facendo il rumore di un sasso.

L’avvoltoio intanto, giunto a pochi metri dalla roccia, riprese il volo e, dopo qualche giro, si posò ai piedi di questa. Lo si vide dar di becco al sasso frantumato e, per diverse volte, portarsi all’incavatura che si trovava sulla parete della roccia. Evidentemente era cibo per i suoi piccoli. Dopo che l’avvoltoio si allontanò, si venne a constatare l’impossibilità di poterci arrivare sia dal basso in alto – parete liscia e altezza vertiginosa – come dall’alto in basso, benché la distanza dall’apice del Monte all’incavo non fosse una cosa enorme.

Dopo tante riflessioni e progetti si venne ad una decisione: calare e arrivare al l’incavo per mezzo di una corda.

Ritornarono con una soga. Tutto il monte, visto da Nuoro, sembra un’enorme mammella e la cima un’immane capezzolo. La scalata alla cima è di grande difficoltà; basti dire che, ad un certo punto, dove vi è un crepaccio orizzontale, c’è davanti un burrone a picco spaventoso; è d’uopo strisciar a carponi per poterlo sorpassare, uno per volta.

Arrivati faticosamente all’apice, il fanciullo si legò bene alla vita con la soga e, preso il randello per difendersi, casomai venisse assalito dall’avvoltoio, si fece il segno della croce e si lasciò calare.

Giunto al giusto punto, osservò bene l’incavatura e vide due avvoltoi ritirarsi nel fondo della gola spalancata. Diede voce per essere tirato su e informò di tutto i compagni, paragonando l’incavatura ad un’enorme bocca, il cui labbro superiore si presentava più sporgente di quello inferiore. Solo dondolando ci si poteva arrivare.

Intanto, i due piccoli avvoltoi già mostravano gli artigli e facevano un verso simile a quello del gatto quando minaccia d’avventarsi. Il fanciullo, dondolando, entrava e usciva dalla incavatura; infine raggiungeva il labbro inferiore. Creduto giunto il momento opportuno, diede la voce.

Ahi! il fanciullo ha parlato prima del tempo! Andò a sbattere sul ciglione, violentemente. Un forte dolore al ginocchio, uno strappone della corda tanto forte da fargli sentire la schiena rotta, non gli diedero la possibilità di domandare aiuto; ma i compagni si accorsero del salto fallito e lo tirarono su, mezzo svenuto. Il ginocchio sinistro, sanguinante, per una profonda ferita e la rotula spostata non gli lasciavano piegare la gamba. Si trovò disteso nella ristrettissima cima convessa, con intorno compagni muti allibiti, con fremiti di terrore al pensiero della sua immobilità, per la discesa. Ebbe la visione dell’abbandono, nell’altissimo isolamento; due avvoltoi, madre e padre dei piccoli, roteando bassissimi, proiettarono, col fruscio delle ali, la loro ombra su quell’ombra di terrore; squittivano, come imprecando ai fanciulli, per aver attentato alla sorte dei loro piccoli.

Intanto il sole, calando rapido, illuminava l’apice sopra al quale il fanciullo stava disteso, come aquilotto ferito, in attesa di nuove forze per riprendere il volo.

Riavutosi alquanto, fu legato e calato dalla parte opposta del monte. La gradinata ebbe sussulti di gioia per lo scampato pericolo.

Tutti i diritti sono riservati  ©OrthobenEssere