La Statua di Gesù Redentore sull'Ortobene
suggestiva Cerimonia

L’Inaugurazione della grande Statua del Divin Redentore fu fatta il 29 Agosto 1901.
Già dalle prime ore del mattino via Majore era affollatissima di fedeli e di pellegrini provenienti da diverse parti dell’isola: e man mano dalla via principale di Nuoro la folla si indirizzava verso la Cattedrale, per prendere parte alla processione religiosa al monte Ortobene ed assistere al momento solenne dello scoprimento della Statua del Redentore.

Si riportano, dell’evento, passi apparsi nelle pubblicazioni dell’epoca: «Le campane della Cattedrale suonano a stormo in segno di gaudio e i fedeli d’ogni sesso, d’ogni condizione e d’ogni età accorrono numerosi al Tempio di Dio.
La bronzea statua del Redentore — che dall’alto dell’Ortobene domina e protegge la città — è illuminata dai raggi solari quando il lungo corteo dei pellegrini inizia la sua marcia verso il monte, nella meditazione dei misteri divini».


LA PROCESSIONE
«La processione ha inizio tra la policroma folla di fedeli: sono presenti uno stuolo di sacerdoti e di chierici. Si giunge così all’eremo della Solitudine da dove inizia l’ascesa.
Il camminar dei pellegrini su per la ripida stradetta piena di pietrame e di rovi è lento, quasi penoso: ma quanti sanno compenetrarsi della bontà del sacrificio che si compie e sanno ammirare la bellezza alpestre della natura che li circonda, non sentono alcuna fatica e vanno innanzi leggeri, freschi, estasiati!
Si continua a salire lo schienale del monte, tra grandi elei erompenti dalla terra con forza di secoli e con fascino di gioventù; si sale sempre più su, mentre soffia per l’altura, attorno alla chioma di Gesù, un po’ di brezza, mentre risuonano le campane di Santa Maria.
Ad ogni croce di ferro ch’è infissa su di un masso granitico naturale, il pio corteo si ferma un istante: si declama lo «Adoramus, te Christe», mentre un prete ed un chierico salgono sul masso, e da questo pulpito fanno una meditazione sulla sacra tragedia divina ed umana di ogni singola stazione della «via Crucis».

Quella era l’ora in cui si scioglieva un voto e si compiva un vaticinio: i popoli più fiorenti della Sardegna, per maschia bellezza e per fiero portamento, erano lì, sulla cresta, in attesa; ed erano vecchi patriarchi dalla barba bianca e prolissa, vissuti nei piani desolati, nei greppi dalle ferrigne ombre giganti, spose e madri arrivate lassù in pellegrinaggio lungo e faticoso; è una varietà infinita di uomini chiomati e fulgenti sotto l’azzurro e il rosso delle vesti di fiamma, è un mondo sovrumano di esseri pieni di fede, di amore, trepidanti, ansiosi, oranti al sole di mezzogiorno; è l’anima sarda, temprata fra le roccie, cresciuta fra i querci, forte e grande come i graniti ed il mare; è l’anima sarda che aspetta, che grida, che fissa gli occhi sull’immenso lenzuolo gittato come drappo, sull’immenso colosso di bronzo dallo sguardo errante ed infinito e dalla mano protesa verso tutti i cuori, verso tutti i dolori e tutte le lacrime umane.
È un popolo un dì sanguinario che giura il patto novello, ed il giuramento sacro per quella croce lampeggiante fra l’azzurro d’un firmamento mai così profondo, è il giuramento che strappa agli occhi stille di pianto, ai cuori singulto, ai petti di ferro gridi, al sentimento dei più teneri e dei più mistici, inni di meraviglia, liriche sovrumane, premi di gloria e di consolazione».


LO SCOPRIMENTO DELLA STATUA
«Tutti gli occhi sono rivolti al Monumento, ancora avvolto dal grande drappo.
Diverse persone, intorno all’opera, attendono l’ordine di sciogliere le
funi.
Ai piedi di una massa rocciosa un altare, sfarzosamente addobbato di antichi e ricchi paramenti, candelieri dorati, fiori in grande quantità.
Per la malattia del Vescovo Demartis uffiziava mons. Lutzu, canonico arciprete in abiti pontificali, circondato dai canonici della Cattedrale e dal clero numerosissimo, proveniente dalle diverse zone.
Ecco finalmente il momento tanto atteso da tutti: cade il grande lenzuolo ed appare Gesù alla turba.
Dopo lo scoprimento Mons. Lutzu solleva il braccio e lancia l’acqua lustrale, zampillante dall’argenteo aspersorio in direzione del sovrastante monumento: è il momento della benedizione.
Il popolo segue con attenzione le preci di rito e risponde commosso.
È uno spettacolo indescrivibile, commovente.
Suona la musica, intanto che si prepara l’altare ed il popolo, ansiosamente, aspetta la messa.
Nell’attesa i fedeli guardano in alto, sul piedistallo; fra i ponteggi colossali (che non si era fatto in tempo a smontare), l’enorme blocco di bronzo gitta il primo lampo nel sole e ode, come tempesta, le voci dei sardi perse per la costiera, voci di pianto, voci di gioia, voci che non hanno nessun interprete, perché volate come dardo, con carezze di musiche ignote, con cadenze di passione, per tutto il monte e per tutta la profondità degli abissi precipitanti giù nella valle.
Signore, Signore, salvate Voi, padrone e dominatore, creatore e salvatore delle anime, salvate Voi, forza e miracolo, bene e tutto, gaudio e lacrime, per la vostra passione e per la vostra vittoria, per la vostra agonia e per la vostra risurrezione.
Dice il popolo: noi risorgeremo!
E la croce che vide il calvario annunzia a codesto popolo che anche il suo calvario è finito; e gli uomini forti di Barbagia, coraggiosi come leoni, tempestosi come i vecchi barbaricini, danno, con tutto l’impeto della loro energia, il primo saluto, il primo evviva, a Gesù che apparisce, a Gesù che sorride; a Gesù che benedice e che annunzia la pace agli uomini di buona volontà».


LA MESSA
«Fra il silenzio generale ha inizio la Santa Messa.
L’Arciprete Lutzu, commosso, svolge la sua alta funzione mentre i fedeli, genuflessi, seguono in particolare silenzio la cerimonia.
Tutta quell’onda umana, tutta quella marea irrequieta, guardava e assisteva commossa, piangente, buona e desolata, ma piena ancora di nuove speranze per l’avvenire.
Immagginate voi una montagna, un anfiteatro smisurato nell’ora dello spettacolo; un mondo di popolo è là, ma questo popolo è genuflesso fra i greppi, fra i macchioni, fra le rupi, è rapito dalla solennità del momento, e, quando il sacerdote incomincia l’Introito della Messa, avreste veduto un agitarsi lontano di braccia, per fare il segno della croce, un sospirar, un pregar sommessi, un affanno quasi in ogni volto, ma un affanno che non era dolore, ed era il parossismo della gioia.
All’elevazione, la musica del 10° Reggimento suona un’altra volta, e gli squilli trionfali di cinquanta trombe volano d’altura in altura, volano da paese in paese, lontani, volano per il mare, da per tutto, recando l’annunzio ai pochi rimasti nei casolari dei villaggi, ai pochi che non poterono venire, o per l’estrema vecchiaia, o per lutti recenti, alla festa delle feste, in Orthobene».


I DISCORSI
Terminata la Messa ha la parola il Can. Pasquale Lutzu:
«CHRISTUS VINCIT, REGNAT, IMPERAT». Signori, nel rivolgere oggi a voi la parola, sento nell’animo la gioia di chi supera molte difficoltà e raggiunge il vagheggiato ideale.
10    non terrò in questo momento di solenne agitazione, un lungo discorso: presumerei troppo delle mie forze e tedierei l’attenzione vostra, così necessaria, perché io possa dirvi una parola della causa sublime che ci raduna accanto ad un Monumento che è gloria dell’arte e della Patria.
A voi, a voi tutti, o Signori del Comitato, il primo ringraziamento dal più profondo dell’anima mia, per l’onore che mi faceste, per la fiducia di cui mi degnaste, nominandomi vostro Presidente.
A Te, Angelo venerando di questa Diocesi, ed a Te, lontano, insigne genio dell’arte che fosti la massima parte nel compimento dell’opera grandiosa, giungano i miei voti e vi giungano ardenti e buoni, avvalorati dalla grazia divina, affinché l’uno sopporti serenamente gli affanni della vecchiaia prima di raccogliere il premio riservatogli quale corona di una vita operosa e giusta, e l’altro non si arresti per il dolore anzi tempo provato, ma ci dia nuove creazioni portentose di arte e di fede.
(La folla applaude calorosamente al grido di viva il Vescovo, viva Jerace).
L’idea d’innalzare diciannove monumenti (nota 4) sulle cime più elevate dei monti d’Italia fu benedetta dal Sommo Gerarca e ben presto, dalle giogaie vestite di candide nevi del Mombarone in Piemonte fino al monte San Giuliano ed al nostro Ortobene, fu una corona simbolica in ricordo duraturo del Re dei secoli.
Saranno tutte queste montagne altrettanti vessilli di fede, ornamento del nostro Paese.
11    nostro secolo, chiamato secolo di civiltà, delira nel pensiero di perpetuare con le tele, coi marmi e coi bronzi la memoria di coloro che appaiono grandi eroi al cospetto dell’umanità.
Proviene tutto ciò dalla falsa persuasione che la cultura dei popoli dipenda, insieme col progresso materiale, dalla sola opera dell’uomo.
Signori, le dottrine morali e filosofiche, le scoperte più grandiose, le arti tutte che riproducono agli occhi nostri quanto vi ha di bello e di meraviglioso nella natura, questa civiltà moderna di che ci gloriamo sì altamente sono, io non lo nego, opera dell’ingegno umano, ma dell’ingegno rischiarato dalla scintilla della Fede.
Senza di essa, in un popolo non può darsi vera vita civile; ed è solo con essa che l’uomo si sollevò dal suo stato vile ed abbietto ed intraprese una’via che lo condusse a fine glorioso; la religione benedisse il vincolo onde si propaga la famiglia umana, santificò il riso ed il pianto, consacrò la fortuna e la sventura e disse all’uomo che egli è pellegrino quaggiù e questa non è la sua patria.
Essa è l’elemento più potente dell’ordine pubblico, la guarentigia più salda del diritto; essa è il fondamento di ogni moralità, il più valido baluardo contro la crescente onda delle dottrine perverse e dell’empietà.
Il popolo dei contadini e degli operai, condannati a tenere sempre fissi gli occhi sulla dura gleba che svolge col faticoso strumento del suo lavoro, ha bisogno, o Signori, di sollevare la mente ed il cuore ad una ragione santa e serena, ha bisogno di ideali che lo rendano migliore, e di lanciarsi sulle ali della fede nella vita d’oltre tomba, con una speranza sicura ed immortale.
Se l’Europa, alla fine del secolo passato rimase stanca di rovine, era giusto che trasmettesse in retaggio al nuovo secolo auspicii di concordia; era giusto che l’Italia, la quale molto, e quasi tutto, deve alla luce del Vangelo, offrisse in omaggio tanti duraturi ricordi al Re dei secoli, e le cime più alte delle sue montagne dedicasse come trono di gloria a Gesù Redentore, poiché sui monti Egli operava i miracoli più meravigliosi.
A Te, o Nuoro diletta, fu riservato l’alto onore di possedere tanto tesoro per l’intera Regione Sarda.
Tu, o Nuoro, che strappavi il pianto più amaro da tutti i cuori per le tue sventure, tu che presso i fratelli d’oltremare avevi fama indecorosa e selvaggia, deh!, rallegrati ed esulta, poiché sulla cima di questo monte selvoso hai ora la Difesa più sicura, il Faro più luminoso.
Sì, a questo Redentore rivolgiamo lo sguardo con animo sincero e supplichiamolo perché conservi l’ordine, l’armonia e la fraterna carità; supplichiamolo perché la nostra Italia non sia più la terra dei Gaserii, degli Angio- lilli e dei Bresci, ma sia la nazione degli animi forti che, conservandola una e grande, la rendano pure rispettata presso gli altri popoli ai quali noi portammo progresso e civiltà.
E Tu, o divino Redentore, proteggi quest’isola negletta, confortala nelle sue sventure.
Se i fratelli divideranno i fratelli, accorrano quassù, e Tu dona ai loro spiriti quella pace simboleggiata nella tua destra; e se l’operajo fremerà sotto il peso del lavoro, Tu che fosti operajo al par di lui, asciugane il sudore.
A noi Sardi, forti di carattere come il granito che ci circonda, a noi e ai nostri tardi nepoti è riservato il sacro dovere di custodire gelosamente questo ricordo di fede e di unione.
A voi, o donne pie, generose e magnanime, il compito di additare ai figli vostri la mite figura del Dio umanato, perché, inspirati alla fede degli avi, crescano forti alla virtù, e imparino a sostenere con rassegnazione le amarezze della vita.
Non temiamo: come oggi, così nei secoli Cristo vince, regna, impera.
Signori! È nel nome adorato di Gesù che io finisco, gridando: Viva Leone XIII / Viva la Patria!».
(Applausi fragorosi e prolungati hanno sottolineato la fine del discorso di Can. Lutzu) (nota5).


LA FOLLA
«Intorno al Monumento una folla di popolo.
Presenti le confraternite e le associazioni cattoliche isolane, autorità civili, ufficiali e militari in brillanti uniformi, con la banda musicale del 10° Reggimento di fanteria.
Nella chiesuola della Madonna, ora non più adibita ai divini uffizi, e pur fabbricata nel 1608, trovarono accoglienza autorità religiose e civili, nelle lunghe tavole apparecchiate per la refezione.
Nel corso del banchetto vennero pronunziati discorsi e brindisi ed inviati i seguenti telegrammi:
A Sua Santità Leone XIII
Vescovo Diocesano, capitolo, clero, comitato, popolo festante solenne inaugurazione Monumento sardi a Gesù Redentore su Ortobene, augurano trionfi religione, traendone auspicii slancio fede popolo sardo, testé solennemente affermata; implorano benedizione, rinnovano protesta illimitata devozione attaccamento V.S. Sede Apostolica.
A S.M. il Re d’Italia
Popolo sardo, fedele religione Padri, Dinastia Sabauda, raccolto vetta Ortobene, inaugurando Monumento Gesù Redentore, invia Maestà Vostra ossequiente attestato inalterabile devozione, implorando celesti favori Vostra Maestà, reale Famiglia.
AS.M. la Regina Margherita
Inaugurandosi solennemente Monumento vetta Ortobene, immenso concorso popolo sardo, rivolgiamo pensiero Maestà Vostra, implorando da Gesù Redentore cui odierna glorificazione Vostra munificenza concorse, ogni più eletta benedizione Vostra Maestà, reale Famiglia.
Allo scultore Vincenzo Jerace
Oggi 29 agosto 1901 presenza più di diecimila spettatori acclamanti Artista inaugurato Monumento Redentore.

(nota4)    Fra i monumenti eretti in diverse vette d’Italia si ricordano: sul Monvisio a quota 3843 m., a monte Maggio di Romagna m. 350, sul Gran Sasso m. 2900, sulla Majella m. 2795, sui Monti Sibillini m. 2477, sul Mombarone m. 2372, sul Saccarello di Liguria m. 1950, sul monte Amiata m. 1734, sul Catria m. 1702. L’iniziativa fu seguita anche all’estero: sulla cima della Cordigliera delle Ande a m. 3990.
(nota5)    Alla inaugurazione del monumento, oltre mons. Lutzu, presero la parola l’aw. F. Mura, il Can. Cambosu, il Teologo R. Barra, il Conte Sanjust, direttore del quotidiano Sardegna Cattolica di Cagliari.

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