L'anima sarda

«Era un giorno assai triste per noi: pei valloni di «Baddemanna», per tutta la montagna, s’era spento appena l’ultimo sparo, e i bianchi stradali che si dilungano fino ai villaggi confinati sull’altura, o accanto al mare, avevano cessato di udire l’ultimo lamento, come di mortorio, l’ultima voce di selvagge carovane notturne: riportiamo uno scritto di G.A. Mura, del 1901.
Non per nulla batteva il cuore alla vendetta, inferocito per lunghi odii, sfibrato in tremende visioni di sangue, e il cavaliere della morte volava incappucciato in mezzo al turbinio della bufera, per aspri sentieri dirupi: la canzone del mandriano era spenta e con essa era spenta anche l’anima sarda.

Il popolo non viveva: soggiaceva a una ossessione demoniaca, al destino degli uomini abbrutiti da schiavitù morale, stretto incoscientemente, soggiogato e avvilito, non sorretto, non confortato mai, nella via dubbia, da nessuno, schiacciato dalle imposte e dalla fame, in misere stamberghe che lo fecero credere microcefalo, perché nessuno scienziato seppe crederlo infelice.
Ma che aveva fatto questa Sardegna barbara e bella per agonizzare così dolorosamente sotto il sole dei suoi cieli profondi?
Insieme con qualche altra ragione poco misteriosa, non una malattia di razza, ma il banditismo concorreva largamente a trafiggerle il cuore, strappandole molti figli buoni e vigorosi, uccidendola in tanta fioritura di paesaggi pieni di fiamma, ai tramonti, in tanta gloria di luce e di colori, in tanta forza di gioventù e di bellezza.
Gli uomini però, possono ascendere.

Dopo la lotta ruinosa, nella quale l’anima raggiunse l’efferatezza dell’alta criminalità, essi sentono il bisogno di aprire le braccia al bel sereno che raggiava, un dì, fra la pace dei casolari risonanti dal ritmo secco della spola, mentre nell’orto erano gli alveari a sciamatura, e lontane, per la costiera ombreggiata di olivastri, vibravano le campanelle dei greggi e degli armenti in pastura.
Così, per il tramite della fede, i Sardi sono passati a nuove speranze e hanno chiuso il cuore a un avvenire di giustizia, hanno pensato che bisognava rifare un po’ di cammino a ritroso, riavvicinandosi a Dio, supremo riformatore dei popoli.
Che importava se la gens trascese a sentimenti di ferocia, non per l’onore nè per la difesa del tetto paterno o delle sue selve, ma per istinto di violenza e brutalità, quando poi, in un attimo, spazzata via la nuvolaglia, ricalcò la via buona e salutare per non lasciarla più mai?

L’ultimo anelito di violenza si spense con l’ultimo anno del secolo: la crisi duravà da molti anni e sembrava senza fine.
Venne però lo slancio, e il popolo, spinto da forza ignota, riconobbe la sua tomba, nè balzò fuori rinnovellato e ardimentoso, fresco di energia e di bontà.
Chi l’aveva tratto a salute?
Non aveva, forse, di lontano, udita la voce di mille lavoratori, dispersi nelle viscere della sua terra, tra i filoni d’argento e di pimbo, privi di aria e di luce, come anime senza redenzione?

O non aveva uditi pochi apostoli di nuova fratellanza laica, sedurlo con miraggi di ricchezza e di splendore, chiamandolo al banchetto comune dei compagni di tutto il mondo, senza legge e senza morale, senza Dio e senza avvenire?
Poteva, la Sardegna, invecchiata sotto la verga baronale, sotto lo spagnolismo simboleggiato nelle lucide gorgiere inamidate dei cavalieri di cappa e spada, sotto la inumana arroganza dei feudatari, non abituato che al fremito delle sue boscaglie, al ritornello monotono delle tradizionali prèfiche piangenti attorno ai cadaveri insanguinati, poteva essa sentire, con coscienza di se stessa, un fremito di vita moderna, un alito di quel risveglio spirituale che oggi è forte aspirazione di tutti i popoli civili?
Chi agita le coscienze? O non poteva Iddio fare il miracolo?
Il miracolo si è fatto e la patria risorse nel trionfo della fede: una gran fede muove le montagne, e una gran fede renderà operosi e miti i figli di Sardegna.
L’inno ch’essi cantarono, fatto di lacrime e di sangue, di dolore e di pentimento, si è unito a quello degli altri fratelli d’Italia, avvinti tutti, nell’omaggio unanime e solenne, indissolubilmente, a Gesù Nazareno.
Essi non lo gittarono ai venti perché si perdesse e non arrivasse, gemito e preghiera insieme, ai piedi di Dio: l’anima sarda non è più spenta, vive di vita buona e vibra nella pienezza della sua risurrezione, nel gaudio della sua fede, della sua speranza e nell’attesa certissima del suo perdono.
Chi potrà incepparle il cammino?
O non andremo noi, penetrati dell’ideale che urgeva nel petto di S. Paolo, a continuare l’opera dei primi apostoli, che attraversarono i boschi, i villaggi e le città, a tener viva la suggestione del miracolo nuovo, per Gesù e con Gesù, rendendoci pellegrini d’amore e di consolazione, trascinando tutti i cuori a battere di tenerezza e di entusiasmo, su, in Ortobene?
Ecco l’asilo al cuore abbeverato di scetticismo. O mio forte Ortobene, io t’ho amato per le tue balze e per le tue rupi accovacciate tra gli elei in perpetua corona: ma non seppi giammai comprendere così intensamente, con tanta ebbrezza, la poesia della tua solitudine, se non quando, per la prima volta, vidi l’ultimo velo della notte sparire dalla cima del picco più alto, e Gesù apparve, come nel giorno dell’Ascensione, tutto avvolto di nebbia.
Anche le turbe della Sardegna erano salite, lassù in cima: quanti cuori non avevano tremato a quello sguardo mite e miracoloso, quanti spiriti non si erano inebbriati di luce al fulgore di quel superbo monumento, quando, ad un cenno di Gesù, le roccie pareva che avessero pullulato di essere viventi.

Nel tenue chiarore del mattino io trassi l’auspicio della patria: bene auspicai nel fervore dell’anima commossa, chiamando altre turbe lontane, dalla Nurra e dal Campidano, da tutta la «Barbagia di Sardegna» che, stanca del vagabondaggio inutile del passato, non si avvia per nessu’altra erta, per nessun altro calvario, fuori di quello d’Ortobene.
Questo il pellegrinaggio del futuro, la meta di tutti i sardi, il santuario di ogni nuova idealità, di ogni nuovo sogno generoso.
Oh, l’anima sarda non è più spenta!
Chi l’ha studiata, nella sua evoluzione lenta e progressiva, potrà dire ch’essa ha conservato la rude bonomia patriarcale, rafforzata nel palpito vasto dei venti della selva, nella varietà di una natura, volta a volta, orrida e stupenda, e manifestantesi anche fra mezzo a tanta notte che la copriva, in squilli gloriosi di gioia, di sentimento e di poesia.
L’anima di nessun altro popolo potrà, infatti, esserle paragonata per l’intuizione profonda della bellezza, amante com’ella è della sua terra e della sua famiglia, buona, sincera, franca, leale e ospitale.
Confidiamo in Lei: essa non è invecchiata, è giovane ancora.

Non invecchiano i popoli che hanno fede di Gesù, i popoli che han pianto, come il Profeta, sui delitti del passato, e confidano nella prossima risurrezione. Vedranno all’aurora ed al tramonto, al sereno e alla procella, l’effigie di Gesù Santo, opera miracolosa di un artista sovrano, che ha dato al cuore di Sardegna, il fior della sua forza e della sua giovinezza, il pensiero del suo intelletto, il martirio della anima sua.
Vedranno i padri sacri alla morte per tanto volgere d’anni, quanta virtù e quanto incendio d’amore si sprigioneranno dall’occhio errante del Nazareno, quanta benedizione spargerà Egli pei solchi tracciati lungo i piani squallidi, per i colli non tocchi mai dall’aratro, per l’immensa distesa di praterie verdeggianti nel rigoglio delle stagioni feconde, per tutti i villaggi solitarii, su tutti i cuori aperti alla luce dell’avvenire».

LA RICCHEZZA?
«La ricchezza, o fratelli, è nel lavoro! Gridava Don Teodoro: è un fabbro a lui rispose: reverendo, sarà ma non comprendo! Tra il martello e la lima, sono trent’anni che penso al suo precetto.
Stanco siccome un asino vado digiuno a letto, e mi levo più povero di prima.
Che il lavoro dia pace, forse lo credo, se così le piace: ma che dia la ricchezza? Ah, non mi quadra! A meno che non sia ricchezza ladra!!».

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