Richiamo e Bellezza della montagna

«In una festa di sole, sul granitico monte chiomato di lecci s’erge la statua del Jerace lanciantesi nel vuoto» (scriveva nel 1903 L. Carta). Io penso.

Fra giorni correranno festanti a queste rocce mille giovani coppie sorridenti sui focosi cavalli provati ai diruppi, e imploreranno dal Redentore che vigila le due vallate feconde, la benedizione di un amore tenace e forte più dei massi cenerognoli tempestati di mica.
Verranno i vecchi gravemente a bearsi nel ricordo degli anni giovanili, rievocando visioni dolci più del miele dell’ape industre all’ombra delle rame sottratte all’avida scure, ed ivi sosteranno lo sguardo geloso volto ai boschi di Orune ancor verdi.
E vedendo passare a schiera nei giubboni scarlatti, contrastanti con le rughe, le vecchie amiche oggi madri, qualche scintilla balzerà ancora dal cuore ormai freddo, alla memoria d’una passione o di un idillio lontano.
Io lo veggo, il buon vecchio, increspar le labbra ad un sorriso interno di compiacenza, ed accender la pipa per vagare con la fantasia fra le spire del fumo che inebbria; un ricordo soave è passato nella sua mente già stanca, e io, intento a scrutare quell’anima candida come i nivei capelli che sfuggono alla «berretta», l’ho colto al volo.

Ei rivide quel monte a traverso la maschera del tempo e la mobile pupilla si posa su Nuoro civettuola, che, dirimpetto, rompe il verde della collina di S. Onofrio, con le multicolori casette su cui s’infrangono in mille irri- descenze di raggi di luce incolora. Ripensa.
Un dì questo monte non mostrava i suoi fianchi: era nero. All’ombra di piante secolari, qui, l’uccello canoro intesseva bei canti che echeggiavano nella valle come trilli argentini; ma il Redentore era …in cielo e Nuoro buia e chiassosa.
Nella sua mente avvezza a rudi imprese, ei rimpiange quei giorni e lancia in aria una sorda imprecazione. Io lo seguo con lo sguardo: ei discende curvo, la testa bassa, senza voltarsi in dietro e piange.

Piange il suo bel monte, verde, sacro agli amori e alle delizie dell’ombra fresca; piange la musica di uno stormir di foglie soave, e gli canta nell’anima, ringiovanita fugacemente ai ricordi, tutta la poesia di quel sacro tempio di pace beata perduto per sempre.
L’avido distruggitore dei boschi incantati di Sardegna era dunque arrivato fin lassù; le due chiese che dovevano proteggere quel luogo non avevano dunque frenato le scuri mercenarie; neanche l’altare della Solitudine aveva commosso quel cuore di rame: o no, niente; in quelle anime da carbonaio non penetra un pensiero gentile.
Sedetti ai piedi della statua, e, innanzi a quell’apoteosi della natura trionfante sotto i miei occhi, pensai tristemente alla moderna «festa degli alberi», che mi si presentava in quel momento in tutta la sua crudele irrisione.

E chiesi a me stesso: perché tanti sardi che d’estate si rifuggiano in residenze meschine, non corrono qui a godere questo spettacolo superbo, ad assistere a queste albe meravigliose, a tramonti che mai nessuno saprà ritrarre, a rinvigorire le membra spossate dall’arsura su questo monte silenzioso, in faccia al mare? Eppure non una palazzina è sorta quassù; non una strada agevole è stata costruita.
Le famiglie signorili di Nuoro, che si contentano di venir a passar qui alcune settimane d’agosto, in casette incomode e direi quasi indecenti, prive di qualsiasi «comfort», non pensarono mai che questo rifugio ameno potrebbe essere una stazione climatica ricercata, potrebbe diventare un ritrovo estivo individuale? E l’inerzia che trionfa su tutto ciò.

Le bellezze di quest’isola melanconica, natante su i flutti del Tirreno come sirena pensosa, saranno dunque dannate a rimanere sempre sconosciute nel rigoglio selvaggio? Ah! No, io spero in un ravvedimento e in una resurrezione.
Io vi sogno colline sorridenti e valli coperte di mirto e d’asfodelo, popolate di casette bianche occhieggianti fra i tralci verdi e le messi bionde; e voi massi informi, che assumete sembianze di titani vaganti nella campagna brulla, io vi rivedo snelle colonne, vasche sonanti di fresche e dolci acque, levigati sedili invitanti al riposo, sotto il profumo dei pergolati in fiore, ed i miei occhi si socchiudono in questa dolce visione che passa,
Dall’alto di questo monte sacrato al simbolo della redenzione, io vi saluto forti figli di Sardegna che avete culto del bello, e vi richiamo a questo rifugio incantevole librantesi fra l’azzurro infinito del cielo e del mare».

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